lunedì 24 settembre 2012

Chi ha ucciso la Fiat?



Il crollo sul mercato europeo della Fiat negli ultimi anni, che è iniziato prima dell'inizio della crisi globale, ha una motivazione molto semplice, che ha poco o nulla a che fare - checché ne dica Marchionne - con la desolante battaglia ideologica sull'articolo 18, con la guerra dichiarata alla Fiom, o con l'acquisizione della Chrysler. La motivazione la vedete nell'immagine qui sopra.

L'auto che vedete nella foto si chiama Stilo, ed è stata una delle Fiat più brutte della storia;  per fortuna adesso fuori produzione, visto che le macchine brutte non si vendono. E' stata preceduta negli anni novanta dalla coppia Bravo - Brava, più riuscite sul piano stilistico ma carenti su quello tecnologico: non era dotata di nessuno di quei dispositivi elettronici che già si stavano diffondendo su molte delle dirette concorrenti, europee e asiatiche, come l'esp (il controllo elettronico di stabilità), il traction control o come un diesel a iniezione diretta, che è stato adottato con grande ritardo; scontava, inoltre, la proverbiale scarsa qualità e affidabilità delle macchine torinesi rispetto alle principali concorrenti. Prima ancora c'era stata la Tipo, che è piaciuta sul piano del design ma ha scontato una qualità ancora peggiore e una gamma troppo limitata (ha debuttato solamente a cinque porte, la tre porte è arrivata  con la seconda serie anni dopo). Questa è la cronistoria di tre modelli Fiat in quello che è il settore di mercato più importante in Europa, il segmento C, quello delle regine del mercato come la Vw Golf, la Ford Focus o l'Opel Astra, per capirci, auto che sono di importanza strategica per i gruppi automobilistici che le producono da decenni con grande successo.  
La Fiat, questo settore di mercato l'ha abbandonato colpevolmente dai tempi della Ritmo, ultima segmento C competitiva. Oggi cerca maldestramente di coprirlo con una vettura, la Bravo, che è finalmente un'auto valida ma purtroppo fuori tempo massimo, e disponibile in una sola versione di carrozzeria (a 5 porte), un errore strategico ricorrente a Torino, quando le concorrenti hanno  anche una versione a 3 porte, la berlina classica a 4 porte, la sw e in alcuni casi persino una cabrio e una monovolume, versioni a trazione integrale, sportive e ora anche ibride. Ormai è tardi per recuperare, la clientela europea di quel segmento di mercato ha dimenticato la presenza della Fiat, anche se si presentasse ora con un modello valido e con una gamma ampia al punto da offrire una soddisfacente varietà di scelta (che, ripetiamo, è un dettaglio non trascurabile), dovrebbe lentamente riconquistare la clientela continentale, che ora si rivolge alla nutrita concorrenza.

La Stilo è solo una della lunga sequenza di modelli sbagliati dalla Fiat, errore colossale in un mercato estremamente competitivo: ci sono state per esempio anche l'ultima Croma, fallito tentativo di coniugare una berlina sportiva con una station o  chissà che cosa, e le Lancia Thesis, Delta, Lybra, vetture con uno stile barocco, inutilmente complicato, e comunque sempre con una possibilità di scelta tra varie versioni ridotta all'osso e non tecnologicamente e qualitativamente adeguate alla concorrenza. E questo solo negli ultimi anni. Inoltre, la Fiat da troppo tempo ha abbandonato completamente settori di mercato importanti come quello delle berline classiche, delle station wagon, delle suv, delle sportive. Senza modelli competitivi, almeno nei settori di mercato strategici, come ha potuto pensare la dirigenza del Lingotto di mantenere o conquistare le quote di mercato necessarie a sopravvivere anche a momenti di crisi come questi? Rinunciare agli investimenti e all'innovazione con la scusa del risparmio e poi della crisi, equivale a suicidarsi; l'hanno capito da molto tempo i giapponesi, i coreani (che crescono malgrado la crisi) e la Volkswagen, primo costruttore europeo con aspirazioni da leader globale, i cui stabilimenti - come quelli di BMW e Mercedes - lavorano a oltre il 90% della capacità produttiva. Infine, c'è la questione dell'innovazione: l'abs (antibloccaggio dei freni), il traction control, il programma di controllo della stabilità (esp), la propulsione ibrida o a idrogeno, è tutta tecnologia pensata e sviluppata all'estero. L'ultima invenzione importante fatta in Italia è stato il diesel common rail, ma anche qui a Torino sono riusciti a fare harakiri cedendo subito il brevetto alla Bosch, con la conseguenza della perdita del primato, visto che fu una Mercedes (insieme all'Alfa Romeo 156) la prima diesel con questa tecnologia. Per il resto, zero assoluto; a Torino non si innova più, non si porta nemmeno un esercizio di stile ai saloni mondiali, dove europei, americani e asiatici innovano, osano e stupiscono a tutto spiano.

E' questo il vero problema della Fiat, altro che articolo 18, ed è più antico della crisi globale e dell'avvento di Marchionne.

Ha ragione Della Valle a sottolineare le responsabilità della famiglia Agnelli e a dire che la Fiat ha preso molto più di quello che ha dato al paese; uno studio recente della Cgia stima in oltre sette miliardi la cifra di aiuti pubblici ricevuti dalla Fiat dal 1990 in poi, cifra che va aumentata di molto visto che la stima non comprende - causa impossibilità di fare un calcolo preciso -  gli ammortizzatori sociali impiegati nello stesso periodo o gli investimenti pubblici per l'apertura degli stabilimenti di produzione. E nonostante tutto questo, l'azienda di casa Agnelli non ha disdegnato di tanto in tanto di tentare di aggirare le regole - malgrado i favori della politica - per esempio importando di straforo le 127 prodotte in Spagna dalla Seat negli anni '70, violando così il contingentamento delle vetture estere.

Non che una industria privata debba fare della beneficenza, ma essersi mossa (o meglio: adagiata) in un mercato drogato dal protezionismo e dalle sovvenzioni pubbliche (e contando solo sulla lira debole per le esportazioni), senza sviluppare una attitudine alla concorrenza vera, è stato fatale; anche in quantità di posti di lavoro persi, con tutte le conseguenze dal caso. Era ovvio che sostenersi prevalentemente con una quota di mercato enorme in un solo paese avrebbe esposto la Fiat più di altri costruttori al rischio di essere spazzata via da una crisi del mercato. Tutti errori e furbizie di una classe dirigenziale poco illuminata, parte di una categoria di imprenditori non educata e non interessata alla concorrenza, all'innovazione e alla ricerca, impegnata piuttosto nell'arricchimento personale. Simili, ancora oggi, all'immagine dickensiana dei capitalisti dell'800, con la tuba ed il bastone, una fila di Scrooge occupatissima a lucidare le monetine mentre i loro operai nelle fabbriche coperte dallo smog morivano di fatica. 

Va detto chiaramente che tutto questo è stato possibile grazie a una classe politica (non è certo una novità) inadeguata a gestire e regolare il libero mercato, adusa a intrallazzi e regalìe interessate, priva di una visione di lungo termine di sviluppo economico. E che ha assecondato sciaguratamente nel corso dei decenni la pretesa della famiglia Agnelli di fare terra bruciata intorno alla sua azienda, impedendo la nascita di una concorrenza interna. Si domandassero, i politicanti che adesso si indignano con Marchionne, perché i costruttori preferiscono andare a produrre in Serbia, Polonia, Repubblica Ceca o Turchia (per parlare solo dell'Europa), invece - per esempio - che nel nostro mezzogiorno. Dove con una fiscalità leggera (leggi: incentivi fiscali concreti) e una seria lotta alla corruzione, non solo la Fiat ma anche costruttori stranieri sarebbero incentivati ad aprire stabilimenti di produzione. E non affrontiamo nemmeno il discorso dei sindacati, troppo spesso lontani dalla realtà del mercato del lavoro quanto lo sono gli imprenditori e gli industriali dalla concorrenza vera.

Marchionne, dicevamo, ha deluso: ha impiegato tutte le sue energie per fare la guerra ai sindacati, tanto per gettare fumo negli occhi, si è prodotto in una lunga serie di operazioni finanziarie, spostando e creando società, è passato come uno schiacciasassi sui diritti dei lavoratori, ricattato sindacati e partiti come un boss con la minaccia di andarsene a produrre in America, facendo il prezioso (che faccio, vado o resto? Mi si nota di più se vado in America oppure se resto ma mi lamento?) spesso in maniera ridicola. Li ha fregati tutti ma si è scordato - o non sa, il che è più grave ancora - che chi fa industria e non solo finanza deve progettare e innovare, proporre prodotti e non solo valanghe di annunci di piani industriali mai concretizzati completamente. La Fiat, lo dice il nome, è una fabbrica, e dovrebbe progettare e produrre automobili, non solo giocare a domino con le società e la borsa. La lentezza cronica con cui vengono sviluppati i nuovi modelli è sintomo che c'è qualcosa che non va a livello di management, evidentemente pieno di finanzieri che non hanno interesse a far lavorare progettisti appassionati. Crisi o non crisi.



Ecco: Marchionne, finanziere da sbarco, non andava lasciato solo, andava affiancato da uno come Vittorio Ghidella. Negli anni ottanta, prima dell'arrivo di Cesare Romiti (altra scelta suicida degli Agnelli) la Fiat di Ghidella era il primo costruttore europeo, e aveva un quota del mercato continentale pari a quasi il 15%. Certamente la lira debole  favoriva le esportazioni, ma il primato fu possibile anche perché la sua gamma di modelli era completa e attraente, almeno sul piano stilistico, malgrado la proverbiale inaffidabilità e scarsa qualità. Questo succedeva quando al timone dell'azienda c'era un appassionato di automobili, e non un finanziere che adesso non ha nemmeno il coraggio di esserlo fino in fondo, di fare gli interessi dell'azienda per la quale lavora, e non trova niente di meglio da dire che sosterrà gli stabilimenti italiani coi guadagni di quelli americani, un'assurdità che suona come una presa in giro.

Se vuole davvero salvare la Fiat, Marchionne ed Elkan devono rischiare ed investire subito nel prodotto, questa è la soluzione: della valanga di nuovi modelli pomposamente annunciati anni fa ancora non si vede l'ombra. La Fiat è competitiva solo nel segmento A del mercato, ovvero quello della Panda e della 500, per il resto non ha nulla; l'Alfa Romeo non può andare avanti solo con la MiTo e con la Giulietta (anche queste con una gamma troppo limitata); mancano scelte valide nel segmento C, come abbiamo visto, come pure berline classiche a quattro porte (categoria Vw Passat), familiari, sportive. E ibride, quelle che fanno volare i giapponesi della Toyota, e che il gruppo Chrysler-Fiat è l'unico al mondo a non avere. Quanto alla Lancia, la cui identità (valore che porta clienti affezionati) è stata distrutta sin dagli anni '80, e se deve essere ridotta a espediente per vendere modelli americani rimarchiati, sarebbe meglio chiuderla del tutto.

O forse è meglio pensare che se la Fiat vuole salvare il comparto automobili, serve un tutore per Marchionne, un nuovo Ghidella. Oppure, è meglio che Marchionne si trasferisca definitivamente a Detroit e si venda tutto (Fiat, Lancia, Alfa Romeo) alla Volkswagen (che non fa mistero di essere molto interessata proprio ad Alfa Romeo), che produce automobili e non solo operazioni finanziarie. O ai cinesi, o agli indiani, che hanno dimostrato - a dispetto dei timori iniziali -  di saper valorizzare marchi europei delicati da gestire, come Jaguar e Land Rover.

(aggiornato il 17 settembre 2013)

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