Il crollo sul mercato europeo della Fiat negli ultimi anni, che è iniziato prima dell'inizio della crisi globale, ha una motivazione molto
semplice, che ha poco o nulla a che fare - checché ne dica Marchionne - con la
desolante battaglia ideologica sull'articolo 18, con la guerra dichiarata alla
Fiom, o con l'acquisizione della Chrysler. La motivazione la vedete
nell'immagine qui sopra.
L'auto che vedete nella foto si chiama Stilo, ed è stata una delle Fiat
più brutte della storia; per fortuna
adesso fuori produzione, visto che le macchine brutte non si vendono. E' stata
preceduta negli anni novanta dalla coppia Bravo - Brava, più riuscite sul piano
stilistico ma carenti su quello tecnologico: non era dotata di nessuno di quei
dispositivi elettronici che già si stavano diffondendo su molte delle dirette
concorrenti, europee e asiatiche, come l'esp (il controllo elettronico di
stabilità), il traction control o come un diesel a iniezione diretta, che è
stato adottato con grande ritardo; scontava, inoltre, la proverbiale scarsa
qualità e affidabilità delle macchine torinesi rispetto alle principali
concorrenti. Prima ancora c'era stata la Tipo, che è piaciuta sul piano del
design ma ha scontato una qualità ancora peggiore e una gamma troppo limitata
(ha debuttato solamente a cinque porte, la tre porte è arrivata con la seconda serie anni dopo). Questa è la
cronistoria di tre modelli Fiat in quello che è il settore di mercato più
importante in Europa, il segmento C, quello delle regine del mercato come la Vw
Golf, la Ford Focus o l'Opel Astra, per capirci, auto che sono di importanza
strategica per i gruppi automobilistici che le producono da decenni con grande
successo.
La Fiat, questo settore di
mercato l'ha abbandonato colpevolmente dai tempi della Ritmo, ultima segmento C
competitiva. Oggi cerca maldestramente di coprirlo con una vettura, la Bravo,
che è finalmente un'auto valida ma purtroppo fuori tempo massimo, e disponibile
in una sola versione di carrozzeria (a 5 porte), un errore strategico
ricorrente a Torino, quando le concorrenti hanno anche una versione a 3 porte, la berlina
classica a 4 porte, la sw e in alcuni casi persino una cabrio e una monovolume,
versioni a trazione integrale, sportive e ora anche ibride. Ormai è tardi per
recuperare, la clientela europea di quel segmento di mercato ha dimenticato la
presenza della Fiat, anche se si presentasse ora con un modello valido e con
una gamma ampia al punto da offrire una soddisfacente varietà di scelta (che,
ripetiamo, è un dettaglio non trascurabile), dovrebbe lentamente riconquistare
la clientela continentale, che ora si rivolge alla nutrita concorrenza.
La Stilo è solo una della lunga sequenza di modelli sbagliati dalla
Fiat, errore colossale in un mercato estremamente competitivo: ci sono state
per esempio anche l'ultima Croma, fallito tentativo di coniugare una berlina
sportiva con una station o chissà che
cosa, e le Lancia Thesis, Delta, Lybra, vetture con uno stile barocco,
inutilmente complicato, e comunque sempre con una possibilità di scelta tra
varie versioni ridotta all'osso e non tecnologicamente e qualitativamente
adeguate alla concorrenza. E questo solo negli ultimi anni. Inoltre, la Fiat da
troppo tempo ha abbandonato completamente settori di mercato importanti come
quello delle berline classiche, delle station wagon, delle suv, delle sportive.
Senza modelli competitivi, almeno nei settori di mercato strategici, come ha
potuto pensare la dirigenza del Lingotto di mantenere o conquistare le quote di
mercato necessarie a sopravvivere anche a momenti di crisi come questi?
Rinunciare agli investimenti e all'innovazione con la scusa del risparmio e poi
della crisi, equivale a suicidarsi; l'hanno capito da molto tempo i giapponesi,
i coreani (che crescono malgrado la crisi) e la Volkswagen, primo costruttore
europeo con aspirazioni da leader globale, i cui stabilimenti - come quelli di
BMW e Mercedes - lavorano a oltre il 90% della capacità produttiva. Infine, c'è
la questione dell'innovazione: l'abs (antibloccaggio dei freni), il traction
control, il programma di controllo della stabilità (esp), la propulsione ibrida
o a idrogeno, è tutta tecnologia pensata e sviluppata all'estero. L'ultima
invenzione importante fatta in Italia è stato il diesel common rail, ma anche
qui a Torino sono riusciti a fare harakiri cedendo subito il brevetto alla
Bosch, con la conseguenza della perdita del primato, visto che fu una Mercedes
(insieme all'Alfa Romeo 156) la prima diesel con questa tecnologia. Per il
resto, zero assoluto; a Torino non si innova più, non si porta nemmeno un
esercizio di stile ai saloni mondiali, dove europei, americani e asiatici
innovano, osano e stupiscono a tutto spiano.
E' questo il vero problema della Fiat, altro che articolo 18, ed è più
antico della crisi globale e dell'avvento di Marchionne.
Ha ragione Della Valle a sottolineare le responsabilità della famiglia
Agnelli e a dire che la Fiat ha preso molto più di quello che ha dato al paese;
uno studio recente della Cgia stima in oltre sette miliardi la cifra di aiuti
pubblici ricevuti dalla Fiat dal 1990 in poi, cifra che va aumentata di molto
visto che la stima non comprende - causa impossibilità di fare un calcolo
preciso - gli ammortizzatori sociali
impiegati nello stesso periodo o gli investimenti pubblici per l'apertura degli
stabilimenti di produzione. E nonostante tutto questo, l'azienda di casa
Agnelli non ha disdegnato di tanto in tanto di tentare di aggirare le regole -
malgrado i favori della politica - per esempio importando di straforo le 127
prodotte in Spagna dalla Seat negli anni '70, violando così il contingentamento delle vetture
estere.
Non che una industria privata debba fare della beneficenza, ma essersi
mossa (o meglio: adagiata) in un mercato drogato dal protezionismo e dalle
sovvenzioni pubbliche (e contando solo sulla lira debole per le esportazioni), senza sviluppare una attitudine alla concorrenza vera, è
stato fatale; anche in quantità di posti di lavoro persi, con tutte le
conseguenze dal caso. Era ovvio che sostenersi prevalentemente con una quota di
mercato enorme in un solo paese avrebbe esposto la Fiat più di altri
costruttori al rischio di essere spazzata via da una crisi del mercato. Tutti
errori e furbizie di una classe dirigenziale poco illuminata, parte di una
categoria di imprenditori non educata e non interessata alla concorrenza,
all'innovazione e alla ricerca, impegnata piuttosto nell'arricchimento
personale. Simili, ancora oggi, all'immagine dickensiana dei capitalisti
dell'800, con la tuba ed il bastone, una fila di Scrooge occupatissima a
lucidare le monetine mentre i loro operai nelle fabbriche coperte dallo smog
morivano di fatica.
Va detto chiaramente che tutto questo è stato possibile grazie a una
classe politica (non è certo una novità) inadeguata a gestire e regolare il
libero mercato, adusa a intrallazzi e regalìe interessate, priva di una visione
di lungo termine di sviluppo economico. E che ha assecondato sciaguratamente
nel corso dei decenni la pretesa della famiglia Agnelli di fare terra bruciata
intorno alla sua azienda, impedendo la nascita di una concorrenza interna. Si
domandassero, i politicanti che adesso si indignano con Marchionne, perché i
costruttori preferiscono andare a produrre in Serbia, Polonia, Repubblica Ceca
o Turchia (per parlare solo dell'Europa), invece - per esempio - che nel nostro
mezzogiorno. Dove con una fiscalità leggera (leggi: incentivi fiscali concreti)
e una seria lotta alla corruzione, non solo la Fiat ma anche costruttori
stranieri sarebbero incentivati ad aprire stabilimenti di produzione. E non
affrontiamo nemmeno il discorso dei sindacati, troppo spesso lontani dalla
realtà del mercato del lavoro quanto lo sono gli imprenditori e gli
industriali dalla concorrenza vera.
Marchionne, dicevamo, ha deluso: ha impiegato tutte le sue energie per
fare la guerra ai sindacati, tanto per gettare fumo negli occhi, si è prodotto
in una lunga serie di operazioni finanziarie, spostando e creando società, è
passato come uno schiacciasassi sui diritti dei lavoratori, ricattato sindacati
e partiti come un boss con la minaccia di andarsene a produrre in America,
facendo il prezioso (che faccio, vado o resto? Mi si nota di più se vado in
America oppure se resto ma mi lamento?) spesso in maniera ridicola. Li ha fregati tutti ma si è
scordato - o non sa, il che è più grave ancora - che chi fa industria e non
solo finanza deve progettare e innovare, proporre prodotti e non solo valanghe
di annunci di piani industriali mai concretizzati completamente. La Fiat, lo dice il nome, è una fabbrica, e
dovrebbe progettare e produrre automobili, non solo giocare a domino con le
società e la borsa. La lentezza cronica con cui vengono sviluppati i nuovi
modelli è sintomo che c'è qualcosa che non va a livello di management,
evidentemente pieno di finanzieri che non hanno interesse a far lavorare
progettisti appassionati. Crisi o non crisi.
Ecco: Marchionne, finanziere da sbarco, non andava lasciato solo, andava
affiancato da uno come Vittorio Ghidella. Negli anni ottanta, prima dell'arrivo
di Cesare Romiti (altra scelta suicida degli Agnelli) la Fiat di Ghidella era
il primo costruttore europeo, e aveva un quota del mercato continentale pari a
quasi il 15%. Certamente la lira debole
favoriva le esportazioni, ma il primato fu possibile anche perché la sua
gamma di modelli era completa e attraente, almeno sul piano stilistico,
malgrado la proverbiale inaffidabilità e scarsa qualità. Questo succedeva
quando al timone dell'azienda c'era un appassionato di automobili, e non un
finanziere che adesso non ha nemmeno il coraggio di esserlo fino in fondo, di fare
gli interessi dell'azienda per la quale lavora, e non trova niente di meglio da
dire che sosterrà gli stabilimenti italiani coi guadagni di quelli americani,
un'assurdità che suona come una presa in giro.
Se vuole davvero salvare la Fiat, Marchionne ed Elkan devono rischiare
ed investire subito nel prodotto, questa è la soluzione: della valanga di nuovi modelli
pomposamente annunciati anni fa ancora non si vede l'ombra. La Fiat è
competitiva solo nel segmento A del mercato, ovvero quello della Panda e della
500, per il resto non ha nulla; l'Alfa Romeo non può andare avanti solo con la
MiTo e con la Giulietta (anche queste con una gamma troppo limitata);
mancano scelte valide nel segmento C, come abbiamo visto, come pure berline
classiche a quattro porte (categoria Vw Passat), familiari, sportive. E ibride, quelle che fanno volare i giapponesi della Toyota, e che il gruppo Chrysler-Fiat è l'unico al mondo a non avere.
Quanto alla Lancia, la cui identità (valore che porta clienti affezionati) è
stata distrutta sin dagli anni '80, e se deve essere ridotta a espediente per
vendere modelli americani rimarchiati, sarebbe meglio chiuderla del tutto.
O forse è meglio pensare che se la Fiat vuole salvare il comparto
automobili, serve un tutore per Marchionne, un nuovo Ghidella. Oppure, è
meglio che Marchionne si trasferisca definitivamente a Detroit e si venda tutto (Fiat, Lancia, Alfa Romeo) alla Volkswagen (che non fa mistero di essere molto interessata proprio ad Alfa Romeo),
che produce automobili e non solo operazioni finanziarie. O ai cinesi, o agli
indiani, che hanno dimostrato - a dispetto dei timori iniziali - di saper valorizzare marchi europei delicati
da gestire, come Jaguar e Land Rover.
(aggiornato il 17 settembre 2013)
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